Il libro è gradevole da leggere per la forma letteraria, come forma di comunicazione e per i contenuti, che ruotano intorno all’etica del lavoro, attraversandolo da cima a fondo e che emergono in modo esplicito, qui e là intersecandosi con il racconto dei personaggi che animano lo scritto.
Il punto di partenza è il lavoro artigiano, l’uomo che sa aggiustare le cose, che ha capacità ma anche rispetto del tempo necessario a farlo, senza forzature e senza fretta. L’artigiano è conscio dei propri limiti ma anche della capacità e possibilità di superarli se riesce a collegare la mente con il cuore. Conosco bene questa mentalità, mio padre era un artigiano oltre che “un uomo che sapeva aggiustare le cose” e fare bene il suo lavoro era il suo stile di vita.
Solo che gli artigiani sono isole senza collegamenti. Sono tanti ma ognuno chiuso nella sua bottega, aiutati al massimo da un giovane apprendista. Monadi chiuse in se stesse di fonte a un pezzo di legno, una lamiera, una stoffa, una pelle, da trasformare con sapienza, calma e dedizione. Sono privi della fretta, di una corsa alla produttività, tipica dell’organizzazione tayloristica del lavoro, che standardizza e livella ogni differenza, producendo beni in serie, tutti uguali e in cui ogni scostamento, che superi i livelli di tolleranza rispetto allo standard, trasforma il bene prodotto in scarto. Al contrario il bene artigiano rappresenta l’esaltazione delle differenze. Non troveremo due piatti uguali se dipinti a mano da un intervento pittorico artigianale, come nel caso delle ceramiche vietresi o caltagironesi. In questo caso la diversità si trasforma in ricchezza. Quello che era un difetto diviene un pregio perché gli artigiani sono sì isolati tra loro, ma abbracciati ed immersi in una cultura produttiva locale, tramandata nel tempo da maestro ad apprendista, per via orale e per esempio materiale.
Moretti ne è cosciente e da buon sociologo ci ricorda che “… nel mio mondo ci sono tantissime persone che fanno bene le cose che debbono fare. Il punto è che ognuno fa da sé, e questo riduce di molto le loro possibilità, sia come singoli sia come comunità. È da qui che nasce il mio sogno, è qui che si innesta la mia possibilità”. Cambiando la cultura e l’approccio potrebbe essere possibile “connettere il talento delle persone con l’organizzazione delle strutture e la capacità di fare sistema dei territori”.
E’ un’utopia destinata a rimanere un sogno? Non è detto poiché una parte consistente di questa cultura è già uscita dalle botteghe, ha investito micro, piccole e medie imprese, che hanno provato a produrre, su scala maggiore, prodotti non standardizzati, automatizzando le fasi ripetitive e sussumendo nella fabbrica saperi e cultura del fare. È il modello del distretto industriale che, nato del cuore dell’Italia centrale, si è poi esteso lungo l’adriatico, anche se con scarse e deboli presenze nel territorio meridionale.
Sarà mai possibile, come auspica Moretti, sostituire il potere della forza, della gerarchia e del denaro con il potere della bellezza e della condivisione? Sarà possibile valorizzare l’educazione, il rispetto, l’amore e l’impegno nelle cose che si fanno? Sì se si potenziano le connessioni tra le persone che fanno bene le cose, se il “lavoro ben fatto” travalica le quattro mura delle botteghe per divenire un metodo di approccio al lavoro, qualsiasi esso sia, manuale o intellettuale, elevandolo a pratica sociale condivisa. Le fondamenta di questo processo poggiano su una tipologia di partecipazione al lavoro non meramente passiva ma al contrario cosciente, in cui il lavoratore non è un’appendice delle macchine, ma pensa, riflette, propone modifiche migliorative della sua organizzazione e del prodotto o servizio offerto, in sintesi è un lavoratore creativo.
Negli USA quest’approccio partecipativo è stato già introdotto nel funzionamento della Pubblica Amministrazione, attraverso un meccanismo d’incentivi monetari che premiano, in modo anche rilevante, proposte di modifiche migliorative dei servizi offerti alla cittadinanza. È il modello di una Pubblica Amministrazione attenta ai risultati che produce, l’opposto di quello in vigore nel nostro Paese, dove l’indifferenza alla qualità dei servizi offerti permea anche l’atteggiamento dei singoli lavoratori.
È un approccio calato dall’alto, in cui è solo l’incentivo monetario che stimola il lavoratore a proporre migliorie. In Moretti, al contrario, l’approccio parte dal basso, stimolando i lavoratori ad assumere l’etica artigianale a modello di comportamento, diffondendo fiducia nelle relazioni sociali, partendo dal modificare il rapporto tra l’uomo e la sua attività lavorativa, per costruire frammenti di comunità coese da connettere su una scala sempre più ampia. Ma non solo. Vi si legge anche il ribaltamento dell’assunto smithiano del self-interest come guida del comportamento umano. In Moretti si parte dall’uomo, dalla soddisfazione che può ricavare da un’attività creativa, da un lavoro ben fatto, dai risultati che ne emergono per il benessere collettivo. Ad esempio un insegnante trova soddisfazione se riesce a far innamorare gli allievi alla sua materia, non se dispensa mere nozioni di cui non se coglie né il senso né lo scopo. Questo è un codice di comportamento che ho personalmente sempre seguito nei miei anni d’insegnamento e la mia soddisfazione deriva dai messaggi che molti studenti m’inviano dai luoghi di lavoro, una volta finito il percorso formativo, per ringraziarmi del metodo trasmesso.
La progressiva automazione dei processi lavorativi, la digitalizzazione del modo di produrre, il ruolo fondamentale di macchine robotiche e intelligenza artificiale, liberando l’uomo dalla schiavitù del lavoro ripetitivo, potrebbero ancor di più rendere vicina l’ora della liberazione dal lavoro alienante. Il problema è che le macchine sono introdotte e utilizzate non a questo scopo, bensì per migliorare la produttività, abbassare i costi produttivi, alleggerendo anche i conflitti sindacali. Il rischio è di non liberarsi dal lavoro alienante ma più semplicemente dalla partecipazione al mondo del lavoro, vivendo di sussidi e perdendo quella dignità che solo un lavoro utile e con valenza sociale può dare.
Il libro di Moretti non esplicita questo tema, propone di agire direttamente sulle coscienze dei lavoratori, cercando di diffondere la metodologia del lavoro ben fatto, togliendo dall’isolamento chi lo pratica, costruendo relazioni che affermino l’idea che un diverso e miglior modo di lavorare e vivere è possibile.